Non avevo mai pensato di fare il ciarlatano, nella mia vita. E ancora oggi, dopo un quarto di secolo di professione, non so per quanto avrò ancora la fortuna di farlo. Per tanto, spero.
D’altronde, quando si lavora per conto proprio, da libero professionista, free lance, “del doman non v’è certezza”, soprattutto in questo campo, soprattutto in Italia. Ma ho voluto la bicicletta e sono felice di pedalare!
Ciarlatano, definiva così questo splendido mestiere (“sempre meglio che lavorare”) un mio caro amico: Isacco Cairus. Ottantacinque anni vissuti a rotta di collo, oltre che di ginocchia, sulle montagne della Val Pellice, fra capre e vacche. Tutte le mattine ascoltava un’ora di rassegna stampa, su Radio Radicale, per sapere cosa succedeva giù, ma scendeva il meno possibile dalle sue montagne. Guardava il mondo dall’alto di Cuccuruc, una frazione a novecento metri d’altezza. Isacco se n’è andato, due anni, fa, ma la sua definizione me la tengo stretta, compresa tutta l’amorevole ironia con cui me l’ha affibbiata.
Anch’io ho guardato tante volte il mondo dall’alto, fuori dall’oblò dei mille e più aerei che mi hanno portato in giro per il mondo. Poi però sono sempre sceso, felice di immergermi nella realtà, fra persone, Paesi e culture diverse.
Il mondo si sta chiudendo sempre di più, e così gli spazi per l’informazione. Qualche anno fa ero al Festival del Giornalismo di Perugia, con alcuni dei più noti inviati italiani della carta stampata: Giovanni Porzio, Mimmo Candito, Massimo Alberizzi. Fra una chiacchiera e l’altra raccontavano come hanno iniziato a coltivare la passione per questo mestiere. Chi andando in autostop in Afghanistan, chi navigando in solitaria il fiume Congo, chi attraversando in moto diversi Paesi latinoameicani. Erano i favolosi anni Sessanta. I giovani di oggi queste esperienze non se le possono più permettere. E non è solo questione di soldi.
La terza guerra mondiale, anche se a pezzi, come dice Papa Francesco, rende impossibile attraversare molte zone del pianeta che un tempo erano paradisi aperti a tutti: Afghanistan, Iran, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Eritrea, Nigeria sono solo alcuni dei tanti esempi.
No: non si stava meglio quando si stava peggio! Il mondo ha fatto registrare molti, positivi progressi, le distanze si sono accorciate grazie a comunicazione e trasporti, ma le divisioni si stanno accentuando, soprattutto negli ultimi anni. Comunicazioni più facili e frontiere più chiuse, sembra questa la linea di tendenza. E, soprattutto, sempre più paura del diverso, soprattutto se straniero.
Anche l’interesse per quello che accade fuori dai nostri confini, sembra costantemente scemare. E dire che gli esteri, in italia, hanno sempre avuto poco spazio. Ma può andare ancora peggio… Nel 2011, quando è stato ucciso Gheddafi, in Libia c’erano solo tre giornalisti italiani, che lavoravano per grandi testate: Stampa, Repubblica e Panorama. Erano tre collaboratori esterni, tutti e tre in pensione. I media non vogliono spendere soldi per mandare i loro dipendenti in giro per il mondo.
Ecco perché mi sento un privilegiato: posso ancora passare dieci e più ore schiacciato su un aereo per andare dall’altra parte del mondo a seguire la storia di una persona e della sua gente. Chi fa informazione non può dimenticare che esiste un mondo, non solo oltreconfine, ma anche in casa nostra: sono i cosiddetti “nuovi italiani”, più dell’8 per cento della popolazione nazionale. Così come non dovremmo dimenticare gli italiani che vivono all’estero, che sono, guarda un po’, più numerosi di noi che viviamo in patria.
Noi comunicatori, non dovremmo solo essere i “cani da guardia del potere”, ma anche quelli delle coscienze. Ricordare alla mitica casalinga di Voghera, e non solo, che non esiste solo il mio ombelico, la mia cerchia di amici, magari confinati sui social, o al massimo la mia città. Dobbiamo ricordarlo a chi legge ancora i giornali, a chi ascolta la radio, guarda la tv o naviga su internet. Ognuno può farlo a modo suo. Io, finché posso, pedalo. Felice di fare il ciarlatano.